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Ca' si arraggiunamm' chisto fatto cio' spiegamm'

  • Immagine del redattore: Francesco Petrarolo
    Francesco Petrarolo
  • 21 ago 2017
  • Tempo di lettura: 11 min

Dalla canzone “Tamurriata nera” ( E. A. Mario),

Alla fine della seconda guerra mondiale in un quartiere di Napoli nasce un bambino di colore “nir’ nir’” “nero nero”; il parolaio dice che parlando e ragionando, le comari, potranno chiarire l’accaduto. Esse hanno voglia di confrontarsi liberamente senza nessuna imposizione di idee e volontà con l’obiettivo comune di capire. Questo è il presupposto primario per qualunque proficua ed efficace comunicazione.

Storie di ordinaria incomunicabilità

Nella giornaliera routine può esservi capitato, attraversando in auto una città sconosciuta, di chiedere ad un passante come raggiungere una certa strada.

Supponiamo che questo pedone risponda al vostro quesito e vi indichi di proseguire diritto e poi di svoltare alla seconda traversa a sinistra. Ripartite, ma, arrivati alla curva indicata, vi rendete conto che la via non è accessibile in auto: vi blocca un bel divieto di accesso.

Naturalmente vi fermate alla ricerca di una soluzione, e forse vi ponete una serie di interrogativi:

  • Il passante è a conoscenza che la strada ha il divieto di accesso, o magari l'Amministrazione Comunale lo ha attivato di recente e lui lo ignora?;

  • Forse egli, per seconda traversa a sinistra, intendeva riferirsi a quelle percorribili con l'auto: quindi la via giusta è la successiva?;

  • Quel pedone si è reso conto che ero in auto, e che con quella volevo proseguire e che non intendevo andare a piedi?;

  • Può, egli, avere confuso il nome o l'ubicazione della strada che stavo cercando; li conosceva veramente?;

  • E' possibile che in malafede, egli possa aver dato una indicazione errata o magari abbia risposto distrattamente?;

  • Ho dato al passante il nome esatto della strada, magari proprio io ho confuso il suo nome?.

Contrariato, e con questi dubbi addosso vi accingete a rivedere gli appunti in tasca, scendete dall'auto per controllare il nome che appare sull'angolo alto della via (se c'è) e cercate un nuovo passante per richiedere l'informazione mentre, probabilmente, avete anche bloccato il traffico. Questi episodi di incomprensione o di quotidiana cattiva comunicazione sono frequenti e, di norma, non sono dovuti alla volontà di non trasmettere corrette informazioni (mi auguro) tra le parti interessate, quanto piuttosto alle imprecisioni, alla fretta e molto spesso alla presunzione che l'interlocutore abbia una parte delle nostre conoscenze: il che non è sempre vero.

A volte succede che il pedone, a cui chiediamo una informazione, ci risponda di imboccare via Roma o di costeggiare il Tribunale e ci dia i suoi suggerimenti facendo riferimento a luoghi e cose a lui noti, come se anche noi li conoscessimo.

I principali problemi che si devono affrontare per avere una proficua comunicazione non sono solo la calibratura del linguaggio che deve essere consono e comprensivo per l'interlocutore: chiunque parla, chiede, manifesta la volontà di dialogare deve relazionarsi con l'altro cercando di individuarne il livello intellettuale e culturale, soprattutto se non si conosce l'interlocutore; si deve provare ad entrare nella sua mente ed anche nel suo cuore, carpirne le emozioni, le aspettative, i desideri come cercheremo di dimostrare nel corso di questa nota. Anche i toni, le gestualità, le espressioni del nostro corpo, i nostri occhi, il nostro volto, gli atteggiamenti, le posture sono necessarie per favorire le sintonie comunicative. Forse è anche opportuno, come nel caso sopra descritto, chiederci se con il passante a cui ci siamo rivolti, abbiamo sbadatamente usato toni perentori, di comando, magari abbiamo sorriso, pensando a cose personali e possiamo averlo infastidito, forse l'espressione del nostro viso o dei nostri occhi possono non essere stati la migliore espressione della nostra cortesia, oppure abbiamo gesticolato più di quanto non abbiamo parlato, facendo intendere cose diverse rispetto alle informazioni che ci necessitava avere. Innumerevoli sono le domande che ci possiamo porre per spiegare come mai una informazione così banale sia stata proposta in maniera sbagliata, oppure non sia stata recepita e comunque non abbia prodotto risultati, dando naturalmente per scontata la buona fede. D'altronde sono ugualmente molte le domande che si sarà posto il nostro interlocutore, se scrupoloso, interrogandosi sull'esattezza delle risposte date e se le stesse siano state recepite nella corretta maniera. Magari egli ci ha anche seguito, con la coda dell'occhio, per capire se avevamo imbroccato la strada indicataci.

Un ferragosto in una capitale del nord-est europa

Da giovane, negli anni settanta, con alcuni amici, decidemmo di trascorrere un ferragosto in una capitale del nord est Europa. In quegli anni, oltre alle scritte in cirillico, per noi incomprensibili, non c'era una grande diffusione dell’inglese o del francese, per cui il dialogo con gli abitanti era difficile e, più volte, ci trovammo in difficoltà. Il giorno di ferragosto, in una piazza della città, ci rivolgemmo ad alcuni passanti chiedendo di un "RESTAURANT” convinti che quella parola fosse universalmente nota. Avevamo ragione, il termine era conosciuto, e ci fu indicata, con un gesto, la posizione del ristorante, all’altro lato della piazza. Purtroppo nella zona indicata non vedevamo un locale che ci convincesse: quello indicato aveva le tendine, non era possibile vedere l'interno e le scritte erano in cirillico. Chiedemmo ancora ad un passante "RESTAURANT?” e ci fu risposto “DA” accompagnato da un movimento orizzontale del capo. Non conoscendo la lingua del paese che ci ospitava ("DA" significa sì), ma interpretando la gestualità del capo, ritenemmo di aver sbagliato locale. Più volte girammo in quella piazza e più volte si ripeté l’equivoco fino a quando entrammo affamati e disperati nel luogo indicato che era poi il desiderato "RESTAURANT". In quel paese per dire "Sì” si scuote la testa in senso orizzontale, mentre in Italia con tale gesto si nega.

Le metafore, le simbologie, le gestualità possono avere significati diversi tra gli Stati, ma anche nelle diverse regioni di uno stesso Stato.

In Italia, dialogando con un interlocutore, e volendo dimostrare la disponibilità ad un rapporto onesto, corretto e paritario lo si guarda negli occhi perché è segno di schiettezza e di lealtà; in Giappone tale comportamento è irriverente, ed a volte, è ritenuto offensivo. Simboleggiare le corna, in Italia, è offensivo, ma questo gesto rappresenta lo stemma distintivo e prezioso di una importante Università Americana oltre ad essere stato utilizzato da babilonesi, vichinghi ed etruschi come simbolo di forza spirituale e mentale.

Le nostre aspettative

Provate ora a pensare a quando, in un ambiente di lavoro o per strada incontrate una collega, o una conoscente, che vi interessa particolarmente perché avvenente o magari perché vi stuzzica l'immaginario. Vi fermate, salutate, poi cominciate ad addolcirvi o piuttosto vi atteggiate a duri, a capi, diventate conciliativi o siete autorevoli, utilizzate i sottintesi oppure siete esplicativi, fate i provocatori o gli annoiati, usate i linguaggi forbiti, intercalate citazioni in inglese o in latino, raccontate episodi del vostro passato enfatizzando il vostro vissuto, oppure fate gli indifferenti: tutto pur di attrarre l'attenzione. La vostra interlocutrice o interlocutore (per par condicio) può utilizzare la stessa metodologia: può reggere il gioco o contrastare le vostre idee o i vostri comportamenti, può lasciarsi attrarre o creare attrazione; può, in sintesi, in quell'incontro, accadere di tutto ed il contrario di tutto.

La domanda che mi pare utile porsi è: ma quale era lo scopo per il quale ci siamo fermati con la collega? La mia interlocutrice ha le mie stesse aspettative? Come e cosa posso fare per far coincidere le attese? Qui l'affare si complica se noi vogliamo conquistarla e lei vuole spettegolare, se ella aspetta comprensione o sostegno per una sua iniziativa e noi vogliamo far passare il tempo, se noi tentiamo di sottometterla e lei vuole far crescere il suo consenso nei nostri confronti. Una buona comunicazione diventa attiva solo se le aspettative degli interlocutori si avvicinano, se sono simili, se gli obiettivi non si allontanano o, peggio, se non sono in antitesi.

I nostri umori

A volte sul lavoro o nei rapporti sociali non siamo dell'umore giusto: non riusciamo a trasmettere i nostri pensieri, siamo distratti o peggio siamo ostili: imprechiamo perché il caffè che ci hanno offerto al bar è troppo caldo, o troppo freddo, o troppo lungo, condanniamo i fumatori ed il loro vizio. Litighiamo con quelli che ci vogliono bene: ci possono donare oro su un vassoio di platino, e non ci va bene. Chi è intorno a noi è in difficoltà, non sa come prenderci, si interdice poiché nota che qualsiasi cosa faccia è male interpretata. Il tutto si complica se una delle due persone che devono scambiarsi notizie o comunque interloquire, non riesce a capire lo stato d'animo dell'altra o, peggio, se ha il suo stesso umore negativo. Magari era allegra, prima dell'incontro, ma il dialogo ha assunto risvolti così negativi che volano da entrambe le parti imprecazioni o improperi inimmaginabili. Sugli umori che condizionano il dialogo si può intervenire solo se uno dei due interlocutori si rende conto dello stato d'animo dell'altro, si trasforma in psicologo, usa i linguaggi giusti, evita di polemizzare, lascia correre e non è puntiglioso. Le difficoltà peggiori non si verificano quando dobbiamo dialogare con un soggetto che è di umore negativo, perché poi, superato il momento possiamo riannodare i fili, ma quando l'interlocutore ha un brutto carattere, è ostico e non si possa fare a meno di incontrarlo. Siamo di fronte ad un individuo che, per difficoltà dovute ai lati negativi della sua vita attuale, all'infanzia, all'atteggiamento, al comportamento dei suoi simili, a fattori caratteriali, non entra in empatia con gli altri, anzi rifiuta qualunque tipo di dialogo. In questo caso le dosi necessarie di pazienza debbono essere davvero concrete: far finta di non capire o di non raccogliere le provocazioni, rispondere cortesemente anche quando siamo offesi? Porgere sempre l'altra guancia? Alla fin fine, se proprio non riusciamo ad intenderci, o a sopportare, ci conviene rinunciare all'incontro.

Cerchiamo d’essere a nostro agio, desideriamo il confronto: io OK e tu?

Quando abbiamo a cuore un rapporto, prima di incontrare un interlocutore, proviamo a farci un suo quadro completo: cerchiamo di capire il suo carattere, di conoscere la sua estrazione, la sua cultura, il suo lavoro, l'età, i possibili suoi obiettivi; osserviamo come veste e così via; poi ci analizziamo, magari inconsciamente, e ci prepariamo all'incontro. Scegliamo l’abito adatto all'occasione, magari il profumo più idoneo, approntiamo i documenti che ci serviranno, la borsa e, se necessario, compriamo anche un regalino: ci poniamo, cioè, in atteggiamento positivo atto a costruire un rapporto. Probabilmente anche il nostro interlocutore, se ha le nostre stesse intenzioni, rifletterà sulla nostra personalità: chi siamo, quali siano le nostre aspettative, regolandosi di conseguenza, con il giusto umore, con l'atteggiamento adeguato ed utilizzerà, tutto quanto è possibile per costruire un rapporto equilibrato. Se, nell'incontro siamo in soggezione, se abbiamo vergogna o timore, se ci sentiamo in uno stato di inferiorità, o se lo è il nostro interlocutore, sarà difficile avere una relazione proficua; se ci sentiamo superiori, più importanti, migliori di lui o desideriamo far prevalere le nostre ragioni o, viceversa se è l'altro che vuole approfittare per ricavare maggiori profitti, possiamo dire addio all'incontro. Se gli scambi sono forzati, se non c'è disponibilità intellettuale e flessibilità, voglia e tempo per costruire i ponti ed abbattere i muri, se non c'è desiderio di trovare intese, è meglio non sedere al tavolo delle trattative, se non per puro formalismo o pratica necessità.

Non sbaglio mai: niente è assoluto

A volte, ci capita e, naturalmente ci è capitato, di incontrare qualcuno di coloro “che hanno sempre ragione”. Quando ero piccolo ricordo mia madre approntare gli gnocchi fatti in casa e servire i nonni. La nonna lamentava che la sua porzione era troppo grande e la passava al nonno che si lamentava in quanto troppo piccola. Avevano ragione entrambi, eppure litigavano. Tutto è relativo, dipende dai momenti, dagli stati d'animo, dalle angolazioni, dalle visuali, dalle aspettative, dalla conoscenza delle cose, dal modo in cui si raccontano gli eventi, e così via. Poche sono le cose, meno di quanto pensiamo, su cui si può esprimere oggettività e far valere le proprie ragioni. La misurazione degli oggetti, in maniera matematica, scientifica, come un litro d'olio o un chilogrammo di patate, sono verità solo apparentemente assolute: scopriamo che il caldo, il freddo, la luce possono influenzare i pesi ed i volumi. Dialogare con coloro che hanno sempre ragione è come ascoltare un monologo: non c'è confronto dialettico, dibattito, non resta nulla del colloquio. Se intuisci questa caratteristica in chi stai per incontrare, evita lo scontro o, se puoi farne a meno, evita l'incontro.

Quanti capi abbiamo conosciuto che non accettano di avere suggerimenti o, peggio di essere contraddetti. Quante volte essi ci hanno risposto che “è così e basta”, solo perché lo dicono loro. Quante volte anche di fronte all'evidenza abbiamo dovuto sottostare ai principi ferrei di chi non sbaglia mai.

Tutti hanno ragione perché ognuno ha ragione

In alcune occasioni ci capita di ascoltare persone che non riescono a mettersi in sintonia con le altre, non arrivano ad accordarsi su qualche argomento o sulle sue interpretazioni e, pur provando a dare le motivazioni o le giustificazioni, non riescono a capirsi e a trovare le soluzioni. Ognuno esprime la propria opinione su un fatto accaduto o su una argomentazione (sociale, politica, etc.), produce con convinzione spiegazioni, dissertazioni, sostiene di avere ragione, esige che questa gli venga riconosciuta dall'altro che, a sua volta, con motivazioni altrettanto valide, chiede il riconoscimento della sua verità.

Ci troviamo di fronte a casi nei quali veramente ognuno ha ragione dal suo punto di vista (che può anche essere riconosciuto logico e valido dall'interlocutore), ma in cui diverse sono le argomentazioni portate a sostegno, dissertazioni che rispecchiano il punto di vista di ognuno degli interlocutori. Ognuno fornisce le proprie spiegazioni e ignora o non valuta sufficientemente quelle dell’altro, anzi, spesso, le ignora. Ognuno ha una visione parziale dell'evento, della disquisizione, del dibattito, ognuno considera importanti le sue ragioni, non inquadra i fatti nella loro globalità, con le relative conseguenze ed osservazioni, in altre parole, il contendere nella intera disputa.

Le visioni parziali non favoriscono la comunicazione, che assume così l'aspetto di uno scontro più che di un confronto.

Parlare di un politico elogiandone le doti di economista e non tener conto di quanto dice l'interlocutore che, invece, lo condanna perché disattento ai problemi del territorio: discutere per ore, sostenendo ognuno le proprie argomentazioni, non agevola il confronto e lo scambio di vedute sulla persona, non facilita il colloquio, inasprisce gli animi, porta alla lotta verbale (e non solo), a meno che non si trovi un punto di equilibrio valutando il politico nell’insieme dei suoi campi di attività, magari indicando le prevalenze di qualcuno di essi.

Avere nel dialogo un obiettivo ben definito, frazionare l’oggetto, il campo della valutazione ad esempio, eliminare la genericità del giudizio, circoscrivere gli eventi, evitare discorsi astratti, tutto facilita il colloquio. Dubitare che le proprie argomentazioni siano le più valide, le più precise, che abbiano il maggior peso nel discorso, escludere aprioristicamente le argomentazioni degli altri, soprattutto quando non è stato ben definito il campo del contendere, evita che la genericità delle trattazioni abbia presa, che si giunga ad errate valutazioni, che si provochi lo scontro e soprattutto che non si giunga alla auspicabile realizzazione di un dialogo costruttivo.

Sembra facile fare un buon caffè

Ora torniamo a quella città dove avevamo chiesto l’indicazione di una strada. Ci siamo poste tante domande, abbiamo cercato di capire la testa ed il cuore nostro e del passante: abbiamo sviscerato le aspettative, gli umori, abbiamo provato a trovare le sintonie, le affinità, l'empatia, ma siamo ancora in alto mare. La strada del dialogo è difficile.

Prescindendo dall'onestà intellettuale, che diamo per scontata in ogni rapporto, se vogliamo entrare in sintonia comunicativa, se vogliamo capire e farci capire, dobbiamo aprire il cuore, avere serenità d'animo, essere ottimisti, avere fiducia in noi e negli altri, dotarci di perseveranza, fiducia, pazienza, benevolenza, non sentirci superiori, ma neanche inferiori ai nostri simili, non lasciarci trasportare dagli eventi o dalle reazioni, avere flessibilità, magari modificando gli atteggiamenti se, nel frattempo, cambiano le sintonie.

Ma non basta: alla parte mentale ed etica dobbiamo accompagnare, nel viaggio comunicativo, una parte più tecnica: il linguaggio ed i toni idonei, il sorriso, le posture e gli atteggiamenti costruttivi, i segnali e le metafore comprensibili, le simbologie corrette; dobbiamo costruire l'empatia nel rapporto e tutto ciò nella speranza che gli altri siano attivi e propositivi tanto quanto lo siamo noi.

Di norma non dobbiamo fare tutte queste “elucubrazioni” se dobbiamo chiedere un indirizzo ad un passante. Abbiamo elaborato riflessioni, stimolato atteggiamenti, cercato teoricamente di procedere ad incontri finalizzando comportamenti ed obiettivi, ma sostanzialmente siamo sempre noi, con il nostro vissuto, le nostre sensibilità ed il nostro buon senso che creiamo i rapporti piacevoli e proficui mentre evitiamo accuratamente le inutili perdite di tempo per tutto ciò che non ci interessa o che ci danneggia; la corretta comunicazione, in sintesi, è solo nelle nostre mani, dobbiamo solo saperla usare senza abusare, ma anche senza lasciarci usare.


 
 
 

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