Le capacità relazionali 2° parte
- Francesco Petrarolo
- 5 set 2017
- Tempo di lettura: 9 min

Socrate il saggio
Nell’antica Grecia Socrate aveva la reputazione di grande saggezza. Un giorno un conoscente andò a fargli visita e gli disse: sai cosa ho sentito dire su un tuo amico? Un momento rispose Socrate: prima che tu me lo racconti vorrei porti un quesito, tre domande che io definisco i tre setacci: i tre setacci chiese il conoscente? Si rispose Socrate. Prima di raccontare ogni cosa sugli altri è bene prendere il tempo per filtrare ciò che si vuole dire. Io li chiamo i tre setacci. Il primo setaccio è la verità: hai verificato se quello che mi stai per dire è la verità? No rispose il conoscente l’ho solo sentito dire. Quindi non sai se è la verità. Adesso disse Socrate continuiamo con il secondo setaccio: quello che vuoi dirmi è qualcosa di buono? No al contrario. Socrate continuò: vuoi raccontarmi cose brutte sul mio amico e non sai se sono vere? Forse puoi ancora passare il terzo setaccio quello dell’utilità. È utile che io sappia cosa mi ha fatto quest’amico? No rispose il conoscente. Allora concluse Socrate quello che volevi raccontarmi non è ne vero, né buono e né utile, allora perché volevi dirmelo?
Ricerca ed insidie
Quando ho cominciato, all’inizio della mia attività lavorativa di management e di docenza, ad interessarmi delle tematiche relative alla comunicazione tra le persone, che per me rappresentavano l’essenza prioritaria prima di trattare i successivi argomenti relativi alla gestione delle risorse umane ed alle abilità necessarie ai manager per controllare i processi evolutivi sia tecnico finanziari che umani, ho cercato di trovare le strade maestre che potessero condurmi alla determinazione di percorsi tali da rendere semplificate le metodologie necessarie alle persone per trasmettersi pensieri, concetti e idee ed ai manager per condurre gli uomini. Più mi addentravo nella specificità delle argomentazioni, più cercavo di intravedere una univocità di comportamenti nelle relazioni interpersonali e più mi rendevo conto delle difficoltà che incontravo nella ricerca di strade semplici che rendessero facilitata e proficua la comunicazione anzi mi allontanavo sempre più dall’intravedere atteggiamenti, metodi e condotte da poter implementare a coloro che facevano parte del mio entourage sia lavorativo che sociale.
In sintesi mi diventava sempre più difficile inquadrare e catalogare i comportamenti da adottare in un processo transattivo in quanto, nonostante gli interlocutori più attenti cerchino, prima di ogni incontro comunicativo, di studiare la controparte sforzandosi di conoscerne, o a volte solo di immaginare, i pregi, i difetti, le abitudini, gli scopi, i pensieri ed i comportamenti, verificando le proprie aspettative, analizzando se stessi ed i possibili obiettivi da raggiungere e, sebbene adottassero cautela e si imponessero la preparazione di dettagli e di regole da seguire, mi rendevo conto, sempre più, che mai il confronto avrebbe assunto esattamente le aspettative attese.
Nel corso di un qualunque confronto dialettico ci dobbiamo rendere conto che lo stesso assume conformazioni e contorni inaspettati prendendo vie a volte non previste o magari difformi, con più o meno intensità, da quanto ci si era prefissato.
Ciò accade per una infinità di motivi addebitabili a noi e o al nostro interlocutore, alle aspettative mancate, alle infinite variabili che intervengono durante il percorso transattivo, a volte non prevedibili; capita che si manca l’obiettivo solo perché si modificano le condizioni non imputabili agli attori ma a fattori esterni relativi ad oggetti, ambiente, fatti, circostanze che possono turbare l’andamento dialogico.

I nostri sensi
A volte è sufficiente l’attivazione o la modifica degli strumenti periferici sensoriali, udito, tatto, vista, odorato, gusto o solo l’avvio, dentro di noi, di pensieri o fantasticherie su cose o persone, che si turba l’atmosfera creata, come, per esempio, il repentino cambio della temperatura atmosferica, la sosta di un’auto vicino alla nostra, la presenza di un fumatore seduto ad un tavolo non lontano da noi, la vista di due persone che litigano, il profumo di un campo fiorito, l’assaggio di un cibo troppo pepato, un cane che ci ronza intorno, alcune volte è sufficiente solo il pensiero che una persona ci possa rimproverare o di qualunque altra stupida supposizione che si può compromettere la serenità e l’atmosfera instaurata ed influenzare irrimediabilmente il nostro o l’altrui umore che può ripercuotersi nella chiacchierata che abbiamo intrapreso.
Altre volte è sufficiente solo una parola, uno sguardo, una postura interpretati diversamente da quanto volevano esprimere gli interlocutori, per modificare o distruggere il rapporto transattivo.
Peggio se immaginiamo che l’altra persona stia pensando una cosa che non ci piace o che possa criticare un nostro o il comportamento di altri che si rovina l’armonia creata e magari si peggiorano le intese con difficoltà raggiunte.
Può anche capitare che pensiamo una cosa e ne raccontiamo un’altra senza neanche accorgercene o che la mente torni ad episodi che ci ricordino il passato e, inevitabilmente, si compromette il dialogo.
Il rapporto comunicativo può nascere sfavorevolmente o mutare quando non siamo in possesso della buona fede, quando siamo sospettosi, maligni, diffidenti, a volte solo guardinghi per rendere ancora più difficile qualunque confronto.
Quante volte durante un incontro con un’altra persona, non trovando intese dialettiche pensiamo o diciamo: “non ha capito” o nei casi migliori: ”non mi sono spiegato”. Forse sono vere entrambi le affermazioni, necessita solo determinare quantitativamente il peso delle due asserzioni.
Accade, a volte, che ci sentiamo soli o parliamo da soli, che i nostri sono solo monologhi, che il nostro interlocutore è distratto, non ci capisce, che non sa cosa dire, altre volte siamo noi ad essere imbarazzati, alcuni argomenti ci mettono in crisi, temiamo di offendere, non riusciamo a dire una parola di conforto, non intendiamo dar corda ad una persona che parla male degli assenti, non abbiamo voglia di pettegolare o spettegoliamo troppo, tutto a scapito della conversazione.
Accortomi di quanto fosse difficile la ricerca di strade semplici che rendessero meno accidentato o addirittura proficuo un raffronto dialettico, mi sono convinto che non è importante costruire un insieme di percorsi o di regole da adottare secondo le circostanze, in maniera quasi robotica, come se stessimo trattando dosi, tempi, procedure e durata della cottura di una torta, in quanto le stesse non sono universalmente adattabili, ma è necessario ed importante dotarsi di principi generali che sono gli stessi utili, anzi direi meglio indispensabili, in tutti i momenti della nostra vita, nei comportamenti, nell’affrontare le difficoltà o nel gioire dei piaceri o solo nel voler intessere un confronto transattivo.
Quindi più che inventare o catalogare regole e comportamenti pronti per l’uso, mi sembra opportuno mettere in guardia coloro che intendono iniziare un confronto dialettico dalle insidie insite nel processi transattivi, considerare con maggiore interesse ed applicazione le aspettative primarie, i secondi fini, i mezzi, i toni, i livelli, gli atteggiamenti, gli stati d’animo e più in generale la miriade di tematiche relative al processo di transazione cercando di analizzare quanto è nascosto dietro ogni aspetto della comunicazione, seguendone l’evoluzione, i limiti, le opportunità o le minacce che si sviluppano nel corso dello stesso processo.

Desiderio di comunicare
È fondamentale prima di intraprendere la strada di una qualunque comunicazione avere il desiderio che la stessa avvenga, dobbiamo aprire il cuore se lo riteniamo importante per certi fini, limitarla o ampliarla, renderla fredda o calorosa, intensa o sterile, esaustiva o incompleta, convincente o dissuasiva, veritiera o menzognera, coinvolgente o allontanante, possiamo atteggiarci con posture tali da rendere l’interlocutore a suo agio o far intendere che siamo intransigenti, di livello superiore e cosi via; possiamo osservare l’interlocutore con diffidenza o fiducia, rispetto o noncuranza, ma sempre tenendo saldo l’obiettivo da ottenere ed i mezzi da usare.
Mi sembra opportuno far presente che, in questa logica, scartata la possibilità di seguire regole, diventi indispensabile essere poliedrici, versatili, agili mentalmente e capaci di adattarsi alle circostanze tenendo la barra dritta verso l’obiettivo prefissato, ed infine essere dotati di buon senso e rispetto per se stessi oltre che gli altri, che considero scontato.
È pur vero che in un processo transattivo gli obiettivi possono mutare nel corso del confronto perché ci rendiamo conto che sono irraggiungibili o perché cambia la nostra strategia ed i mezzi utilizzati, l’importante è averne la consapevolezza, la flessibilità intellettuale per intuire i cambi di rotta ed averne il controllo.
Questa è la strategia comunicativa che può farci da guida, da adottare, senza comunque trascurare di individuare le prerogative, lo stile, la personalità, gli obiettivi ed i mezzi in possesso dell’interlocutore.
Mi necessita ora ampliare alcune considerazioni fatte, mettendo sotto i riflettori altri aspetti che rappresentano le mine vaganti che possono turbare o frantumare i processi transattivi e che sono relativi al nostro e all’altrui modo d’essere, alle personali prerogative, agli atteggiamenti, all’essere, per esempio, più o meno tolleranti, arroganti, orgogliosi, ipocriti, ironici, pregiudizievoli, superbi, irascibili o in malafede, all’essere invidiosi o accidiosi; pensate ancora alle difficoltà che si possono avere quando, in un processo dialogico, siamo timorosi, timidi, turbati, introversi o eccessivamente estroversi, poco o troppo solari, se non ci sentiamo a nostro agio o sentendoci eccessivamente a nostro agio facciamo sentire l’interlocutore a disagio.

Antipatia e feeling
Riflettiamo ora su quanto possa incidere, in un processo transattivo, la simpatia e l’antipatia: per loro abbandoniamo un tavolo di confronto, ci addolciamo nei contrasti, tolleriamo o respingiamo con forza le opinioni degli altri che non condividiamo, siamo, in sintesi, capaci di prendere decisioni che in altre situazioni avremmo negato e viceversa.
Anche il feeling o l’empatia possono essere trappole o scappatoie che travisano o alleviano l’andamento dialogico, peggio, poi, se sono usate ad arte da noi o dagli interlocutori.
Volendo ancora esaminare il nostro modo d’essere ritengo di dover prendere in considerazione altri fattori perturbanti del processo dialogico: l’emozionalità e la razionalità. Quanto incidono i livelli emozionali e razionali in un rapporto transattivo? Quante volte ci lasciamo andare mentre l’interlocutore assume aspetti razionali e viceversa? Quante volte ci aspettiamo sintonie elettive e riceviamo sbadigli? Quante volte vorremmo affrontare tematiche raziocinanti ed incassiamo distrazione, noia? Quante volte arriviamo ad un incontro arrabbiati, irascibili ed accolti con un sorriso ci smontiamo e modifichiamo l’approccio previsto?
Un altro elemento, fortemente perturbante, del processo transattivo è la presunzione del sapere, il ritenere di essere in possesso della conoscenza.
Si racconta che Socrate sia stato definito dall’oracolo di Delfi il più sapiente degli uomini del mondo allora conosciuto perché sapeva di non sapere.
Anche Giuseppe Verdi pare che morendo abbia detto ai propri collaboratori, in un momento di grande umiltà: muoio adesso che sto imparando un po’ di musica.
Alcuni appunti socratici:
“ mettersi continuamente in discussione perché non si sa e non si conosce, oscillare in tanti argomenti in su e in giù mettendo tutto nel dubbio, in confronto, non essere mai della stessa opinione non è un atteggiamento di debolezza ma rappresenta la forza del non sapere. Non c’è niente di più bello che essere incerti, oscillare perché non ci si accontenta mai, non avere una risposta che valga per tutti, pungolare gli altri affinché si insinui un dubbio su ciò che ognuno crede di sapere, rifiutarsi di parlare con chi è infecondo, non inquieto, perché non essendo nell’incertezza non è teso a conoscere se stesso”
Queste espressioni mostrano i momenti dell’umiltà: la consapevolezza di non sapere.
Molti di noi sono stati e sono alla continua ricerca della verità che è conoscenza e la conoscenza è la premessa per avvicinarsi alla verità che è già, di per se, un eccellente risultato; raggiungerla rappresenterebbe solo una sciocca ed arrogante presunzione.
Ritengo ci sia un filo conduttore che lega ricerca, conoscenza, ragione e verità.
Quando cerchiamo di sapere dobbiamo entrare in contatto con le cose o con le persone; il contatto con gli oggetti, attraverso la ragione, ci può portare alla conoscenza, ma la stessa è senza riscontro e rappresenta solo una valutazione ed una stima soggettiva. Quando esaminiamo un quadro, osserviamo un edificio o vediamo una persona, ne traiamo un giudizio che è dato essenzialmente da ciò che vogliamo vedere ma non rappresenta la valutazione che emerge dal confronto dialettico; è solo una opinione estetica, un’idea presunta ed alcune volte solo immaginata.
Se, viceversa, entriamo in contatto con le persone per confrontarci, conoscere i pensieri o trasmetterci idee o cose, mettiamo in moto la ragione, utilizziamo gli strumenti idonei, ci poniamo obiettivi, sempre ricercando l’autenticità del messaggio, desideriamo accostarci alla verità; qui, purtroppo, entrano in gioco le variabili e le minacce espresse precedentemente rendendo difficoltoso il percorso transattivo.
È pur vero che la ricerca della verità ha affascinato intere generazioni senza che mai nessuno abbia trovato la strada idonea per individuarla perché nella valutazione della conoscenza ha un ruolo determinante la soggettività che allontana l’attendibilità e la credibilità dello stesso processo in esame.
Nell'ambiente socratico-platonico, il criterio di ricerca della verità consisteva nella sollecitazione del soggetto pensante a ritrovarla in se stesso e a trarla fuori dalla propria anima (maieutica) con tutti i limiti dell’individualismo.
In sintesi è la nostra intelligenza, il buon senso, l’intelligenza sociale, la flessibilità intellettuale, la capacità di adattarci, la nostra volontà di determinare un confronto ad armi pari che devono accompagnare gli umili servitori della comunicazione se si desidera iniziare o proseguire un confronto dialettico, augurandosi che l’altra parte faccia lo stesso.
La lotta per sapere
“Quando ho cercato alacremente la conoscenza, il sapere, la verità, quando ho lottato perché le stesse emergessero e primeggiassero, quando mi sembrava di aver capito ed essere vicino al traguardo, mi accorgevo di non aver afferrato quasi nulla, di essermi ingannato e vedevo la chimera verità perdersi diradandosi nella fitta nebbia, lasciandomi l’illusione, il malessere e le ferite”.
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